La lettera degli occhi

IMG_4016.PNGTornar potessi indietro, cambierei tutto. Cambierei il modo di parlarti, cambierei il modo di viverti e soprattutto cambierei il modo di guardarti. Parte tutto dagli occhi, da un incrocio di sguardi, come se fossero la foce di una sorgente che si congiunge al mare, gli occhi fanno questo appena si incontrano, si collegano e non si staccano più. Dissi una volta che gli occhi sono lo specchio di ciò che nascondiamo nell’animo, credo sempre di più in queste parole, quando si intrecciano gli sguardi si crea un ponte di contatto tra le due anime nascoste e queste vengono segnate per sempre inequivocabilmente, anche se questo ponte viene a crollare, figurativamente permane nell’idea e nello spirito. Se potessi tornare indietro inizierei da qui, nel ripristinare le crepe di questo ponte, non lasciar che imperterrite continuino il loro percorso, sgretolandolo sempre di più. Cambierei il modo, senza dare per certo quello che ho davanti, mantenendo nei miei di occhi, la curiosità di voler scoprire e di cercare sempre qualcosa di nuovo dentro di te, perché so che c’è, è inevitabile, non siamo completi per natura ma tendiamo a volerlo essere. Talvolta per esserlo si deve essere in due o in tre, quattro, cinque…. e potrei continuare fino all’infinito, ciò che è certo è che da soli non ci si riuscirà mai. Se potessi tornare indietro perciò ti guarderei come il primo giorno in cui mi sono innamorato, come se ogni giorno fosse inevitabilmente il primo e continuerei a farlo senza fermarmi mai, perché dovrei fermarmi? E’ quello che voglio, non ne vedo il motivo. Se potessi tornare indietro ti abbraccerei, sempre con gli occhi, perché loro hanno anche questo potere, quante cose si possono fare con un semplice sguardo. Se potessi tornare indietro ti bacerei, ancora con gli occhi, perché non c’è contatto più bello e più intimo di quello del bacio e pensare che questo avviene con le labbra che arrivano a toccarsi figuriamoci quanto sarebbe bello vedere due anime baciarsi. Insomma tutto questo per dire che, se potessi tornare indietro, non cercherei di cambiarmi, assolutamente no, cercherei di fare una cosa semplice ma che in realtà risulta essere difficilissima: aprire gli occhi.

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Uno sguardo giuridico sulla sanità

medici-ospedalieri

Oggi parlerò di un tema particolarmente delicato ma di estrema attualità, ne ho sentito l’esigenza proprio qualche giorno fa quando chiacchierando ho approfondito la questione. Di questi tempi infatti, in cui la malasanità incombe,i dubbi e le perplessità su ciò che realmente possa comportare tutto questo sono più che legittimi. Al di là della necessaria analisi tecnica e scientifica dell’operato dei medici, credo sia necessario porre uno sguardo anche sul profilo giuridico di questi soggetti, in breve che cosa accade ad un medico che reca danno ad un paziente? I soggetti maggiormente interessati, ovviamente sono quelli che lavorano presso strutture ospedaliere pubbliche o cliniche private essendo in questi luoghi, per la semplice legge dei grandi numeri, la maggior concentrazione di eventi che colpiscono i pazienti.

 

A titolo di responsabilità extracontrattuale ritroviamo diverse sfumature dovute dalle circostanze che hanno visto il verificarsi di un evento suscettibile di aver cagionato un danno considerato ingiusto ad un determinato soggetto. Si parla in particolar modo dei soggetti che pongono in essere il fatto. L’art. 2043 nella sua accezione apre alla generalità delle possibilità creando di fatto una atipicità dell’illecito civile permettendo di spaziare nel regime di tutela attraverso l’evoluzione giurisprudenziale, è il caso della responsabilità del medico ospedaliero oppure dipendente di una clinica privata. Numerosi sono stati gli interventi giurisprudenziali che hanno mutato il regime di responsabilità, sia dei professionisti in senso generale che nello specifico del medico, il quale ha visto l’introduzione a partire dal 1999 da parte della giurisprudenza della teoria del contatto sociale che avrebbe mutato lo scenario della responsabilità facendola passare da extracontrattuale , secondo l’accezione classica, a contrattuale basandosi soprattutto sul ragionamento legato all’inserimento nel rapporto tra le due parti non legate da un contratto tangibile un obbligo di buonafede e protezione suscettibile appunto di far sorgere in capo al medico una vera e propria obbligazione che comporterebbe nel caso di inadempimento a questo punto l’applicazione dell’art. 1218 e 1223 ( risarcimento del danno da inadempimento : interesse positivo). Scenario che ha visto un nuovo recente mutamento con la promulgazione della legge Balduzzi nel 2012 che sembrava in parte riaprire le porte al ritorno della responsabilità extracontrattuale, il dubbio è sorto negli interpreti creando diverse sfumature e diversi orientamenti. Quella che assume il medico è una obbligazione di mezzo e non di risultato, il medico di fatto fornisce lo “strumento” utile per raggiungere un determinato “obbiettivo” che in tal caso è proprio la salute del paziente, non essendoci alcun contratto tra medico e paziente, si è sempre optato per concepire la mancanza del medico d’innanzi a tale obbligazione come un danno ingiusto nei confronti del paziente, impostazione voluta proprio per la mancanza appunto di un contratto tra le parti che faccia sorgere un obbligo giuridico nitido. Quello introdotto dalla legge Balduzzi in particolar modo riprendendo il dettame dell’art. 3 : “L’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo”.  L’obbiettivo della legge era quello di porre il medico in condizioni più favorevoli di azione che dal 99 a questa parte avevano suscitato in questa classe una sorte di “timore d’azione” dovuto più che altro al forte favor di tutela nei confronti del paziente. In campo penalistico tale legge ha di fatto escluso la responsabilità del medico salvo che non si parli di colpa grave in maniera coerente con quanto ravvisato in ambito civilistico riguardo all’estensione della responsabilità del professionista ( in ambito contrattuale ) anche alla responsabilità extracontrattuale utilizzando il precetto dell’art. 2236  limitando la responsabilità solo ai casi di colpa grave, ma richiedendo una prestazione impeccabile e senza possibilità di comprendere rischi ex ante per ciò che concerne gli interventi di routine, dove in caso di lesioni si estenderebbe la responsabilità anche per colpa lieve, in tale concezione è contemplato come esimente solo l’imperizia, mentre imprudenza e negligenza non vengono contemplati. Una struttura interpretativa di questo genere permetterebbe al medico di avere maggiori libertà di azione e di evitare una politica attuativa detta in gergo “medicina difensiva” che tarperebbe non di poco l’operato del medico in questo modo si andrebbe a creare una concorrenza d’azione tale da vedere l’azione contrattuale nei confronti dell’ospedale “datore di lavoro del medico” e l’azione extracontrattuale nei confronti di quest’ultimo. Quello che però si richiede applicando l’art. 2236 è una diligenza non più legata al semplice obbligo di buona fede, bensì concepita come qualificata, proprio perché sono richieste condotte specifiche, è il caso appunto degli interventi considerati di routine secondo i parametri di progressione tecnico – scientifica dove non è permesso al medico di porre in essere condotte che rechino danno al paziente per le quali anche se lievi il medico ne risponderebbe, è un regime che quindi continua a mantenere una protezione nei confronti dei pazienti, vedendo applicare l’art. 2043 non più nella sua accezione classica bensì con la presunzione dell’elemento soggettivo della colpa, perciò per determinati casi si parlerebbe di culpa in re ipsa, proprio per il fatto che attenendosi alle linee guida ed ai protocolli medici oltre al codice deontologico, citati all’interno del testo di legge Balduzzi, non possono essere presi in considerazione per questa tipologia di interventi, in concomitanza come accennato poc’anzi con il progresso della scienza,  gli elementi costitutivi della colpa ovvero la negligenza e l’imprudenza, cosi = cass. 13 aprile 2007 n. 8826 e cass. 21/12/ 78 n. 6141 “ se l’intervento è di facile esecuzione, per dimostrare il fatto peggiorativo da parte del cliente è necessario fondare la responsabilità sulla presunzione di inadeguata condotta e sarà pertanto onere del medico fornire prova contraria di evento imprevedibile o condizioni fisiche già esistenti al momento dell’intervento”. La diligenza qualificata in concomitanza con l’evoluzione tecnica e scientifica dei mezzi forniti alla medicina porterebbe estremizzando il concetto addirittura ad una forma di responsabilità oggettiva del medico, l’elemento di analisi della colpa di fatto rientrerebbe solo come utilità per capire se si possa parlare di responsabilità o meno in sede penale, perdendo invece il significato nell’ambito civilistico dove il medico risponderebbe per responsabilità solo nei casi di colpa grave oppure nei casi di colpa lieve qualora si parli di condotta “non idonea” come sostenuto da un’ ampia giurisprudenza, si arriverebbe dunque a riscontrare una responsabilità solo sul collegamento eziologico tra il danno e il medico che ipoteticamente lo abbia posto in essere, fornendo come prova liberatoria l caso fortuito allegato al rispetto a pieno dei codici deontologici, delle linee guida che in determinate circostanze,  senza caso fortuito, potrebbero non bastare per escludere un medico da responsabilità civile, quello che viene espresso da questa legge può essere anche recepito come una volontà da parte del sistema di deviare la lente d’ingrandimento non più sull’operatore, bensì sul sistema complesso e sulla struttura quindi collettiva, il richiamo all’art. 2043 allora vorrebbe assumere un senso di “responsabilizzazione” dell’ente ospedaliero in particolar modo sull’obbligo dello stesso di controllare che i propri operatori si attengano in maniera perita e diligente alle linee guida e alle prassi specifiche dell’ambiente, se questo è vero allora non si può escludere che il precetto dell’art. 3 della legge pur possedendo una “oscurità sintattica” tale da rendere difficile comprendere il reale senso della norma apre a diversi scenari interpretativi anche con riguardo al tema del risarcimento, contemplando la possibilità di accrescimento (patrimonialmente parlando) di mera garanzia di soddisfazione del credito e di consistenza dello stesso che sorge in favore del paziente, come conseguenza del danno ricevuto, nel porre in essere azione risarcitoria nei confronti di un ente piuttosto che nei confronti di una persona fisica, in relazione quindi ai comportamenti e alle condotte degli operatori che abbiano agito in maniera “inadeguata” . La legge Balduzzi come detto poc’anzi ha aperto però la strada anche ad un altro filone interpretativo, ovvero quello che sostiene una continuità con la giurisprudenza del 99 riguardo alla natura della responsabilità medica come contrattuale ex art. 1218, proprio sulla dispensa del contatto sociale, si ritiene di fatto che il riferimento all’art. 2043 riportato nel testo di legge abbia una portata generale riguardo più che altro al risarcimento del danno in particolar modo quindi al secondo comma della norma in esame. Quello che è certo è che non si è andato a creare sicuramente una costanza nelle decisioni giurisprudenziali in materia, anche se dagli ultimi orientamenti, sembra proseguire la strada verso la concezione contrattualistica (de facto e non de jure) della responsabilità del medico ospedaliero o dipendente in clinica privata.

Misero

Talvolta ci si chiede dove possa essersi nascosto il proprio ego, il motivo di alcuni fallimenti e l’insorgere di debolezze. Ma è forse dentro di noi il problema, oppure siamo noi il problema stesso? Ciò che è certo, è nessuno può scoprire se realmente l’ego si sia nascosto oppure non ci sia mai stato. 

Misero, non riesco
A compier
Ciò che voglio
Ad esser
Ciò che credo.
Vicino all’arrivo,
Estremi passi indietro
Di una corda stretta
Tiron’me regredendo
Non compio il compibile.
Perché?
Ciò che frena è vile
Ma chi è?
Forse non altro
Che quel misero mé.

Rassegna Poetica

Titolo: Quando una parte della vita se ne va.

Autore: Gianluca Festuccia.

Quando una parte della vita se ne va

Bisogna allenare gli occhi a vedere
di nuovo

Bisogna allenare le gambe a muoversi
di nuovo

Bisogna allenare le spalle a proteggerci                                                                      di nuovo

Bisogna allenare il sorriso a comparire
di nuovo

Bisogna allenare i fianchi ad avvicinarsi
di nuovo

Bisogna allenare le braccia a stringersi
di nuovo

Bisogna allenare le guance ad arrossire
di nuovo

Bisogna allenare il cuore a battere
di nuovo

Bisogna allenare la bocca a baciare
di nuovo

Bisogna allenare la testa ad amare
di nuovo

E bisogna

convivere con se stessi
ed abituarsi al vuoto

Di nuovo.

Si evince una spiccata musicalità in tutta la composizione, la struttura irregolare non contrasta questo effetto comunque prodotto da dolci e semplici artifici. L’anafora del “di nuovo” mi piace molto perché permette, all’inizio di ogni verso di rompere la monotonia della ripetizione, mi piace inoltre perché nasconde un significato simbolico ovvero una staticità dovuta dalla situazione e la necessità di romperla testimoniata proprio da quello che racchiude quell’espressione. È interessante partire dalla fine, il penultimo verso è una sorta di ossimoro nei confronti dell’intera composizione nella quale si invita a rincominciare, a non lasciarsi abbandonare a se stessi, tornare appunto ad “allenare le braccia a stringersi di nuovo” indirizzando all’unione ed all’accoglienza di nuove personalità all’interno della propria vita. Proposizione significativa è poi: “allenare gli occhi a vedere, di nuovo” invitando forse il lettore a muovere la propria conoscenza verso luoghi inesplorati al fine di ricercare nuovi stimoli ed ancora nuove conoscenze, ricollegandosi al verso più esplicito riportato precedentemente. Ci troviamo di fronte ad una serie di rimedi volti a risolvere il problema posto al primo verso, la perdita. La soluzione finale però è spiazzante in parte, perché è proprio la solitudine la miglior ricetta per colmare un vuoto. L’autore ci insegna che non è importante trovare qualcosa di nuovo per sostituire qualcosa di perso è bensì necessario saper ritrovare se stessi.

E’ proprio giusto studiare Dante così?

Che meraviglioso festival! Mi viene da pensare non appena  riaffiorano nella mente le immagini delle  manifestazioni di questo weekend ravennate appena trascorso dedicato a Dante, in una cornice meravigliosa nella quale hanno spiccato soprattutto  i chiostri francescani, teatro di conferenze veramente interessanti e di uno squisito concerto in una fredda ma lucente notte di un qualunque giovedì di Settembre. Illustri ospiti sono venuti a rendere omaggio con argomenti differenti al sommo poeta, tra i quali ha spiccato  il nome dello storico Luciano Canfora che ha deliziato i presenti con un intenso intervento riguardante il Canto di Ulisse, incentrando in particolare la discussione, sul tema della conoscenza.  L’incontro sul quale, tuttavia vorrei soffermarmi, ha visto protagonista un tema molto importante quanto se vogliamo complesso da affrontare, si tratta del valore di Dante e non solo ( la letteratura per intenderci) nella scuola e nei dintorni.  Ma cosa vuol dire dintorni? Bhé sicuramente  l’obbiettivo non era concentrarsi solo sul profilo della crescita scolastica di un giovane perciò dintorni significa crescita sotto il punto di vista più importante ovvero quello della vita al quale è sicuramente e necessariamente collegato il percorso scolastico. Ospiti di giornata sono i due noti professori e filologi romanzi Claudio Giunta dell’università di Trento già romanziere di successo inoltre fresco di pubblicazione con il suo primo manuale di letteratura e Marco Grimaldi dell’Università la Sapienza di Roma.  Due personalità giovani ma soprattutto giovanili per criticare in maniera costruttiva alternando con positività a negatività la modalità con la quale Dante e più in generale la letteratura vengono date in pasto ai giovani studenti delle scuole superiori. L’approccio con il panorama dantesco alle superiori risulta essere drastico, per il semplice fatto che il materiale , oltre che l’analisi della persona, risulta essere complesso da affrontare  per un giovane di 15-16 anni che ha tutt’altro nella testa a cui pensare e non di certo Dante ed essendo le sue opere in generale ma soprattutto la commedia, che per programma ministeriale deve essere affrontata nel triennio, particolarmente intense e non facili da comprendere addirittura per studiosi che vi dedichino la propria vita figuriamoci per un qualsiasi studente di liceo o di altra scuola superiore.  Questo ciò che emerge anche raschiando nei ricordi degli illustri invitati che si sono espressi in maniera abbastanza concorde sostenendo che per un differente approccio sia necessario anche un diverso modo di affrontare l’argomento da parte dei professori.  Fornire basi solide che permettano di affrontare temi importanti per la loro levatura possedendo quindi competenze pregresse che vengono acquisite durante il percorso letterario del biennio, altra soluzione può essere quella di affrontare la commedia non sedimentandosi sui concetti bensì sui significati delle singole parole, l’etimologie delle stesse, comprendere quindi l’italiano medioevale prima ancora di comprendere l’analisi di ciò che viene descritto con questo linguaggio, sostiene di fatto Giunta , da buon filologo romanzo, che sia necessario comprendere prima il perché si utilizzassero determinate forme lessicali e di sintassi ancor prima di affrontare gli “episodi” e gli intrecci riportati all’interno dell’opera. L’approfondimento più interessante e sul quale vorrei maggiormente soffermarmi però è quello che riguarda l’idolatria e miticizzazione del Dantismo e di conseguenza di coloro che ne studiano la vita e le opere. Il concetto sta nel ravvisare che un esaltazione e formalizzazione tale della figura di Dante rischierebbe di allontanare il giovane dallo studiare lo stesso per passione e lo avvicinerebbe a studiarlo piuttosto per timore reverenziale rendendolo ancora più astruso e complesso più di quanto non possa esserlo già , studiare un qualcosa che piace lo rende anche più piacevole e facile da apprendere. Ipotizzando un cambio di prospettiva che vedrebbe mutare del tutto la visione di Dante e del suo intero panorama si passerebbe ad un approccio generale più soft che permetterebbe ai giovani e non solo, di avvicinarsi alla commedia ed al poeta in sé in maniera differente, più passionale, con una voglia più intensa di comprendere la storia e tutti i motivi per i quali sia stata scritta, tuttavia il rischio che si può contestare è quello di suscitare una rozzezza dovuta probabilmente dalla leggerezza con la quale esso potrebbe essere affrontato, c’è da dire che un’opposizione di questo tipo altro non sarebbe che uno sminuire il valore dei giovani: sbagliatissimo! Il falso problema , come viene ravvisato, non si presenterebbe nemmeno, per il fatto che un approccio del genere porterebbe solo freschezza ed una sana e costruttiva spensieratezza che per gli anni degli studenti deve essere sacrosanta.  L’errore poi, che molte volte si pone in essere risulta quello di spezzettare la commedia non concependola come un qualcosa di unitario, lo studente si focalizza solo ed esclusivamente su quanto affrontato a lezione non collegando quanto analizzato con la globalità dell’opera, con questo modus operandi, risulta difficile appassionarsi a qualcosa. La curiosità e la voglia però devono essere fomentate ma soprattutto sostenute, è fondamentale quindi incoraggiare e venire incontro agli studenti per favorire un approccio differente all’opera che permetta di riempire il proprio bagaglio culturale con una pietra miliare della letteratura Italiana, simbolo di un percorso formativo e che aiuti gli adulti di domani a non “viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza”  .

Giovani: fucina di idee

imageI giovani sono una risorsa naturale, nettare per fornitura di nuove idee e creatività. Come aiutarli? Venire in contro a questa categoria in questo momento sicuramente può risultare difficile sotto molti punti di vista, in primis, quello che riguarda l’impiego degli stessi. In un panorama attuale che impostato in questo modo, rischia di tagliare le gambe a chi dimostra volontà e non stimolare chi magari risulta essere ancora immaturo per il grande salto. Questo sarà il tema che tratterò nel mio primo articolo sulla rivista “Agorá mensile d’informaIone” per illustrale la situazione sia da un punto di vista sociale sia da un puto di vista tecnico del giovane italiano con una precisazione particolare sulla regione Emilia- Romagna. Vi aspetto il 29 settembre in tutte le edicole.

Il desiderio

imageAvvicinando il tuo sguardo
Funesta ondeggi
Manifestando
Un sinuosismo di forme
Aumenti il desiderio
Le onde del tuo corpo
Padroneggi nella mia mente
Il mio io risvegli cocente
Di desiderio del piacer
Nella ballata della notte.
Scopri ogni tua
Dolcezza,
Apparente trasgressione
Di un movimento lussurioso.
Dove sei?
Mentre cerco soddisfazione,
Forse mi sfuggi
Mentre io cerco,
Quel che non trovo
Nel reale disio della mia volontà
Camuffata di tiepide cecità..
Di morale.

Perchè ingannare la morte?

?Ogni essere vivente che poggia il proprio corpo su questo mondo, ha paura della morte. E’ il cosiddetto istinto di sopravvivenza, che ci spinge a muoverci in modo tale da poter considerare la vita un oggetto meraviglioso e perfetto. La volontà risulta allora essere quella di voler creare una realtà duratura senza porsi mai il quesito di quando essa cesserà, la paura è troppa. Ma questo può avere un limite? Quell’istinto in vero, non può essere il presupposto per un sogno quanto surreale quanto atroce nel suo significato. E’ un’antica legge che afferma che ogni cosa prima o poi giungerà ad una fine ed è proprio il termine a dare maggior valore ad essa; allora, aspirare alla vita eterna in senso materiale, perché credo io dal punto di vista spirituale è la miglior realizzazione esistente,  non risulta essere uno sminuire se stessi? 

Chi vuole vivere per sempre?

l’immortalità è via di fuga

per l’animo impuro

di chi ha paura, di mai

riuscir a giunger ad obbiettivo.

Scappare,

è da vigliacchi,

ingannare,

è da mediocri.

Perché ingannare la morte?